venerdì 28 aprile 2017

Quelli tra il Codice da Vinci e realtà. I due motivi per cui "I guardiani" di De Giovanni non mi ha convinto: una recensione a base di komplotti, Gabriel Garko e troppi spiegoni.

Nel periodo delle mie scuole medie (barra poco prima, barra poco dopo) ci furono un certo numero di fiction un po' diverse dalle agiografie/famiglie romane becere/famiglie nordiche industriali/corpi di polizia o ospedali che rappresentano attualmente il 99% della produzione italiana.

Tutti possiamo ricordare il ciclo di Fantaghirò  e la spasmodica attesa nell'apprendere in quale modo avrebbero sostituito il recalcitrante Kim Rossi Stuart che proprio non voleva saperne di tornare a interpretare Romualdo.


 Ma ci furono anche altre imperdibili perle (purtroppo perdute nei meandri del tempo), come: "Sorellina e il principe del sogno" (con una Valeria Marini fata delle acque e Raz Degan principe), "C'era un castello con 40 cani" (che apprendo da wikipedia essere del 1990, forse anche per quello ricordo poco o niente), o "Desideria e l'anello del drago" con un Anna Falchi figlia del re che doveva vedersela con una sorellastra malvagia, avida di potere dai capelli scuri.
 Erano fantasy di raro incredibile trash eppure indimenticabili (e purtroppo senza degni eredi).

 Tra gli altri incredibili tentativi di genere dell'epoca, rimane impressa nella mia memoria una stramba e trashissima fiction dal titolo "Angelo nero".

 Ammetto che sono vari i motivi per cui non è rimasta sepolta tra le nebbie dei miei ricordi, non ultimo una conturbante scena di nudo della protagonista che, provvista di curve prosperose si rotolava nell'erba con carni bianchissime e sensuali in bella vista (aò ancora me la ricordo quella scena, come se l'avessi vista ieri).

La trama copiava praticamente l'incipit de "La casa dalle finestre che ridono" di Pupi Avati:  un restauratore (interpretato da un giovane Gabriel Garko) arrivava in questo borgo del centro Italia per restaurare appunto il quadro (o l'affresco) di una donna velata, una strega bruciata in loco nel medioevo a cui era legata una maledizione.

 Ricordo poi poco e niente del resto della trama (avevo, stante sempre wikipedia, 14 anni all'atto della messa in onda e non credo che qualcuno abbia mai avuto il coraggio di rimandarla in onda), se non che c'erano alcuni omicidi, una setta e che, alla fine, un buon solvente scopriva il volto della strega svelandoci che era proprio lei: la carnosa fanciulla che si rotolava nuda nell'erba (e che non ho idea di chi quale ruolo avesse nel film).

 In ogni caso c'erano tutti gli elementi per un horror all'italiana di vetusta memoria, incrociato con antichi riti magici, maledizioni, sovrannaturale, credenze pagane, stregoneria, passione e immortalità.
 Poi vabbeh i protagonisti erano Gabriel Garko e Sonia Grey e qui si chiudeva la storia.

 Ecco, a me questo genere, perversamente piace, amo potenzialmente le storie alla Codice da Vinci (penso derivi sempre dall'impriting Indiana Jones), scritte bene però.

 Alcuni esempi possono essere "L'ultimo Catone" di Matilde Asensi o "Il club Dumas" di Pérez-Reverte (anche se le imprecisioni storiche per chi ne sa di libri antichi sono davvero molto fastidiose) o "Il pendolo di Foucault" del fu Umberto Eco, che era in verità una presa in giro del genere letterario in questione, ma che rimane fantastico.

 "I guardiani", il nuovo libro di Maurizio De Giovanni, prometteva di inserirsi nel filone, peraltro, visto lo scrittore, con buone possibilità di successo. Invece, pur apprezzando il tentativo, ci sono due cose che me lo hanno reso indigesto.
 Una dipende da De Giovanni e una no.

 Iniziamo da quella che NON dipende da De Giovanni.

 Dunque, il motivo per cui mi piacciono queste storie in cui i Rosacroce si sposano coi Templari in segreti matrimoni gay trascritti su papiri conservati in monasteri irraggiungibili in cima all'Himalaya a cui possono arrivare solo tre persone (una suora, un bonazzo che vuole farsi la suora e uno studioso di Shakespeare appassionato di criceti) dopo aver affrontato migliaia di peripezie e aver dimostrato la conoscenza di almeno 4 lingue morte tra cui il sanscrito e il sardo-fenicio, ecco il motivo è che sono quelle robe che mi piacerebbe tanto accadessero, ma razionalmente so che non sono possibili.

 Quello che mi godo è proprio il senso di mistero e di possibilità che dà la narrativa usando fantasiosamente delle lontane basi storiche. Il gusto che dà l'immaginare di essere un archeologo figo e con la frusta che scopre il sacro Graal in Giordania mentre è inseguito dai nazisti. La libertà dell'avventura.

 Ecco. Il motivo per cui adesso faccio fatica a leggere questo genere di trame è che razionalmente io ora so una cosa spaventosa: ci sono orde di persone che credono che quelle trame siano VERE.
 Ci sono davvero persone che credono agli alieni come fondatori della civiltà, a guardiani immortali che ci spiano da un bunker sotterraneo sotto Zurigo, alla telepatia e all'immortalità, ai rettiliani e alla discendenza benedetta dei figli di Gesù e Maria Maddalena.

 Certo, c'erano anche prima, ma prima l'opinione comune era considerarli degli "originali", ora il problema è che si cerca di far considerare degli "originali" chi, come me, tende a voler mantenere ben distaccate quelle due cose che sono realtà e fantasia.
 Insomma, leggo "Il codice da Vinci" o "I guardiani" e so che per molti non si tratta di un romanzo, ma di un trattato di sconcertante e scottante attualità molto più reale della realtà.
 E scusate a me 'sta cosa toglie il gusto di leggerlo.

 Il motivo che invece dipende da De Giovanni è un altro ed è IL TEMPO. Che j'è mancato.

 Per scrivere un libro che ha delle vaghe basi storiche a cui appellarsi qualche ricerca bisogna farla. Almeno un minimo. Altrimenti i riferimenti, la cornice, l'atmosfera, che sono la cosa davvero gustosa di queste trame che in genere non hanno spessore letterario alcuno (e non dico che debbano avercelo perché sono letteratura d'intrattenimento), vanno a farsi benedire.

 Ecco, qui l'atmosfera manca totalmente e ci sono invece montagne di spiegoni che, nonostante la loro montagnosità non riescono neanche a farci capire esattamente le coordinate della trama che infatti imbocca anche un paio di vicoli ciechi risolti da deus ex machina che proprio no.

 Vabbeh, cosa succede in questo libro?

 Un professore di antropologia di 42 anni e già abbastanza disadattato, col suo fido assistente dal nome strambo, Brazo (?), portano avanti da almeno un decennio una serie di studi sui riti dedicati alla dea Iside e ad altre divinità precristiane in quel di Napoli. Tutti li considerano dei ciarlatani, ma loro vanno avanti per la loro strada.
 Un giorno una giornalista tedesca, Ingrid (si chiamano tutte Ingrid queste nordiche), arriva a Napoli per vedere il professore e chiedergli di guidarla in giro per le tracce di questa Napoli precristiana per un articolo. In tutto ciò, in brevi capitoli random, si avvicendano vari personaggi slegati dalla trama principale che parlano insistentemente di mappe e cartografia.

 L'attenzione si sposta poi su Lisi, unica nipote del professore, figlia di sua sorella (una donna molto svagata diciamo) e di un misterioso uomo incontrato in gioventù in oriente. Anche lei è una brillante antropologa di 23 anni (vista l'età con una triennale) che studia i riti precristiani a Napoli, ma invece di fare ricerche in biblioteca usa internet (e qui già avevo i tremori).

 Insomma, da questi elementi parte prima una trama un po' d'azione, poi tanti spiegoni, poi di nuovo azione, poi spiegoni, poi spiegoni, poi Svizzera, poi mappe e spiegoni, poi l'ho finito di leggere solo perché era l'unica cosa che avevo in treno.
 Dunque, non c'è una minima ricerca storica, tutto è tirato via con una velocità imbarazzante.

 I personaggi che in genere sono il punto forte di De Giovanni che li sa ben caratterizzare e di cui sa descrivere i timori, gli orrori e gli amori, sono invece incolori, insapori, inodori.

Indistinguibili tra loro, non fanno altro che dirsi "E' una cosa troppo assurda" "Non ci crederà nessuno" "E' davvero troppo assurdo" "Chi ci crederà".

 Un peccato, perché l'ossatura e l'idea c'erano in embrione. Come non è facile far atterrare un disco a Lucca, non è neanche semplice portare trame del genere a Napoli senza rischiare l'effetto trash alla "Angelo nero".
 Purtroppo manca tutto il resto: il gusto della lettura, il gusto della scrittura, la ricerca, le relazioni tra i personaggi, i personaggi stessi.

 A pensar male verrebbe da credere che tutto sia stato messo su carta e poi in libreria troppo di corsa e come si dice: "La gatta frettolosa fece i gattini ciechi".
 Purtroppo.

giovedì 27 aprile 2017

Piccole recensioni tra amici (nel gelo d'aprile)! Casalinghe disperate ne "La ragazza dell'altra riva" di Mitsuyo Kakuta e avvenenti collegiali dalle braccia di panna in "Olivia" di Dorothy Strachey.

 Dopo alcuni giorni dai miei, in cui forse sono arrivata ad avere un'idea che DEVO avere prima dell'inizio dell'estate (scoprirete poi perché), ecco che finalmente sono tornata nelle nordiche lande dove infuria la bufera e si gela.

 Intendiamoci, io sono felicissima faccia più fresco perché detesto il caldo in città e l'idea di avere 30 gradi e passa da aprile a ottobre mi stava atterrendo, ma qui siamo piombati direttamente in novembre.


 Vi giuro che, dopo, accoglierete ogni singola nuvola come una benedizione celeste. Comunque, ecco a voi un "Piccole recensioni tra amici" fresco fresco.
 Si tratta di una novità e di un libro purtroppo fuori commercio che ho trovato all'usato, ma che comunque si reperisce in biblioteca (o appunto all'usato) e spero prima o poi ristampino.

 Sappiate che domani recensione de "I guardiani", il nuovo libro di De Giovanni. 

 Ora basta annunci e let's go!


LA RAGAZZA DELL'ALTRA RIVA di Mitsuyo Kakuta ed. Neri Pozza:

 Ero tutta molto happy per la lettura di questo romanzo che, essendo un Neri Pozza, inconsciamente già collegavo alle opere di Ito Ogawa. Coincidenza o meno, delle opere di Ito Ogawa ha lo stesso stile, gli stessi pregi e gli stessi difetti. Ma andiamo con ordine.

 Trama.

Sayoko è una giovane madre di famiglia  che, malgrado viva nel negli anni 2000 è afflitta dagli stessi identici problemi delle donne italiane degli anni '60: ha un marito che preferisce lei non lavori, una bambina che vorrebbe mandare al nido, ma non riesce perché tutti le dicono che compirà l'insano gesto sarà una madre snaturata, una suocera che la critica sempre e un'insofferenza generalizzata verso il ruolo di moglie e madre perfetta che finisce per causarle un principio di depressione.

 Da varie letture antecedenti, so che la situazione della povera Sayoko non è affatto estrema, ma un problema della condizione femminile in una società molto conservatrice come quella nipponica: una volta che ti sei sposata, resistere ai continui impulsi esterni a diventare la casalinga e la moglie perfetta è impossibile. 

 Se lavori, la maggior parte delle volte è meglio tu smetta, le famiglie sono molto presenti nel ricordarti i tuoi doveri e monitorarti quasi come spie, senza contare che vieni continuamente giudicata da chiunque.

  Succede pure in Italia, ma qui se il vicino di casa si permette di fare osservazioni sul tuo modo di crescere i figli o pulire la casa, lo mandi allegramente a quel paese, lì non è costume e comunque farà la spia a tua madre.

 Molte rinunciano a sposarsi (un altro problema nipponico infatti è il bassissimo tasso di natalità), altre, come Sayoko, si sposano, fanno figli e poi si trovano col peso di una quotidianità che non hanno scelto, addosso.

 Sayoko a un certo punto rinsavisce, anche perché capisce saggiamente che questa sua depressione sta iniziando a danneggiare emotivamente anche la figlia di due anni, così cerca un lavoro e lo trova presso una sorta d'impresa di pulizie gestita da una strana trentenne, Aoi.

 Ecco, la trama prometteva che dal rapporto tra le due sarebbe emerso una sorta di empatico miglioramento delle due donne, entrambe vittime di una società oppressiva. 

In realtà la storia di Aoi scorre narrativamente su un piano completamente diverso.

 Mentre i capitoli in cui Sayoko inizia a lavorare e a uscire dal buco nero post matrimonio in cui si era ficcata raccontano i giorni nostri, la linea narrativa di Aoi descrive la sua difficile adolescenza, segnata da bullismo, un'amicizia morbosa con una compagna di classe e una solitudine sconfinata alla quale sembra involontariamente destinata per il resto della sua vita.

 Ovviamente si dà per scontato che Sayoko vada a colmare questo vuoto, ma il problema è che proprio quando le due iniziano davvero a interagire, il libro finisce. Così nel niente.

 E si rimane con una strana sensazione, quella di aver letto due libri, uno davvero bello e uno insomma

 Quello bello è quello che riguarda Aoi, una storia di solitudine adolescenziale che somiglia a quella di molti:  involontarie protagoniste un gioco al massacro in cui altre persone per primeggiare hanno bisogno di sempre nuove vittime sacrificali.

 I segni che rimangono su quelle vittime sacrificali durano a lungo, a seconda di quanto pesante sia stato il gioco e dalle conseguenze che ha avuto. Aoi trova una sua simile, l'amica Nanako, che da punto di riferimento si dimostra molto più fragile di lei e, di colpo, la storia di una meravigliosa amicizia salvifica vira in modo drammatico.

 La storia di Sayoko è interessante all'inizio e irritante alla fine: perché una donna con un marito che non alza una paglia a casa, maschilista e mammone e che evidentemente non ama, una suocera irritante e impicciona, una volta riacquistata l'autostima e l'autonomia non chiede il divorzio?

 Suppongo c'entri molto la variabile culturale, cose che noi occidentali non riusciamo a capire, ma che rende un po' ostico il personaggio di Sayoko, così opaco e insignificante nei confronti della passionale, drammatica Aoi.
 Quindi Aoi vale il libro, Sayoko insomma. Vedete voi.


OLIVIA di Dorothy Strachey ed. Baldini e Castoldi:

 Ho trovato questa piccola fantastica perla in uno di quei Libraccio che vendono tutti i libri usati a 3 euro (prima era a 2, ma vabbeh 3 euro rimane un prezzo accettabile). Devo dire che l'ho scelto dalla copertina, che come potete ammirare dall'immagine non era niente di particolarissimo, ma boh mi aveva attirata.
 Ora, dovete sapere che inizio a sospettare di possedere una sorta di superpotere librario che attira a me tutti i libri a tematica lesbica, tipo calamita, perché, nonostante nulla lo lasciasse presupporre a una prima occhiata, questo si è rivelato il tema principale.

 Mi sono infatti trovata di fronte all'unica (purtroppo) opera di Dorothy Strachey, attiva nel gruppo Bloomsbury, amica di Virginia Woolf  che nell'introduzione di questo libro, (che pubblicò in forma anonima), fa un esplicito coming out.

 La storia di Olivia, giovinetta vittoriana, proveniente da una famiglia tanto ricca quanto atea, tanto morigerata quanto poco dedita alle passioni, ricalca infatti i mesi che la scrittrice passò sedicenne in un collegio francese per completare la sua istruzione.

 Olivia viene infatti spedita dalla famiglia in questa scuola per signorine di buona famiglia gestita da due donne nubili amiche di vecchia data della madre. Tu pensi a due vecchie megere e invece mlle Julie e mlle Cara, sono delle affascinanti giovani donne che, insieme, hanno concepito l'idea di questa scuola.

 La storia, che avrebbe tutti gli ingredienti per rientrare in quelle trame ambigue e sensuali in cui giovinette dalle braccia color panna finiscono per fissare con desiderio altre giovinette dalle braccia color panna e i capelli di seta, (un evergreen che quando è trattato con raffinatezza e mestiere e non appartiene a filmazzi porno a tema lesbico, sa dare ottimi risultati), in realtà si muove su due binari:

1) L'innamoramento, assolutamente non velato e anzi esplicitato con forza dalla protagonista, per mlle Julie per cui si strugge di notte e di cui anela le brevi visite e le attenzioni fuggevoli.

2) Il lesbodramma (dicesi lesbodramma quel modo drammatico in cui tendono a finire molte relazioni lesbiche, trascinandosi tra pianto, stridore di denti, recriminazioni e nuovi amori) che è in atto tra Julie e Cara, anche loro coppia ampiamente esplicita.

 La genialità della trama sta infatti nel distrarti con un abile MacGuffin: Olivia che brama Julie.

 In realtà la Strachey tesse un intreccio sotterraneo che oserei dire giallo: ci sono infatti due nuove amanti a dividere Julie e Cara e una delle due sembra avere secondi fini, non molto nobili e che riguardano la proprietà del collegio.


 E' un gioiello. Non una parola fuori posto, non un capitolo inutile, non una leggerezza e, straordinario per i tempi, neanche un eccesso di "ti faccio capire che qua tutte sono lesbiche, ma evito di dirtelo esplicitamente".
 Le carte sono in tavola e sono ben scoperte.  

Olivia rispecchia il coraggio che la sua autrice, per l'epoca ebbe e di cui da lettori di questa meraviglia non si può non esser grati.

lunedì 24 aprile 2017

"Cry me a river" di Alice Socal e l'effetto "Ero contentissimo" di Tiziano Ferro. Perché le persone, pur amandosi, alcune volte si lasciano? E perché questa graphic non riesce a spiegarcelo?

 Non saprei esattamente dire per quale motivo, ma ultimamente mi è abbastanza chiaro che se voglio far durare la mia relazione a lungo e con gioia non devo assolutamente compiere un passo fondamentale: comprare casa.

 Ormai la quantità di coppie (etero e lgbt) che conosco e che si sono lasciate pochissimo tempo dopo aver compiuto l'insano gesto è talmente elevata che meriterebbe un qualche studio da parte di sociologi illuminati.

 Riscontro meno incidenza tra coloro che si sposano, ma devo dire che conosco anche poca gente che si è decisa per i fiori d'arancio, quindi temo che nella mia empirica statistica personale c'entri anche questo dato.

 Generalmente queste deliziose coppie che avresti detto insieme per sempre e per sempre ancora, si lasciano letteralmente dall'oggi al domani. 
 Il carnefice di solito è sempre uno dei due (nel senso che è il famoso caso della scelta condivisa) e le storie a cui si pone fine sono davvero lunghe come matrimoni: dieci, dodici anni. Gente che stava insieme dall'inizio dell'università o quasi che, diciamo al momento fatidico, molla il colpo.

 Uno si dice, (oltre al fatto che ogni coppia è felice o infelice a modo suo e sa perché e per come si lascia), succede perché la casa per i giovini italici è davvero l'impegno della vita. Determina dove finiranno i tuoi soldi per trent'anni, dove ti stabilirai foreva e con in qualche luogo e con chi spenderai per sempre le tue energie, il tuo amore, le tue amicizie e quanto lontano dalla tua vita precedente ti adagerai senza possibilità alcuna di ritorno.
 Direi che mette un'ansia non da poco.

 Quello che mesi e anche anni dopo osservo di tanto in tanto in queste ex coppie è però il temibile effetto "Ero contentissimo" di Tiziano Ferro.

 Molti ricorderanno la canzone per l'audace allitterazione di Tiziano che canta "Ed eri contentissima quando guardando Amsterdam non ti importava della pioggia che cadeva".

 La canzone, che mi pare giusto citare, visto che è paragonabile alla statura morale di quella che dà il titolo alla graphic novel della recensione, racconta la storia di questo tizio che parla alla sua ex e gli ricorda i bellissimi giorni passati insieme, contentissimi, sotto la pioggia e la neve, ricordi di ricordi, viaggi in Olanda e altre cose.

 Oltre a rimembrare i begli inverni passati, la pungola dicendole: ma sei proprio sicura che ora stai meglio? Non è che trovi solo scuse per stare meglio e convincerti di aver fatto la scelta giusta?

 Ora, al netto del livore e delle speranze che sono lunghe a sopirsi di chi viene abbandonato, in effetti, Tiziano potrebbe aver toccato un nervo scoperto: le coppie che si lasciano pur amandosi ancora, a causa di motivi imprecisati e non sempre convincenti.

 Un temibile controsenso di cui, immagino, solo chi si trova, può dare risposte razionali: perché si pone fine a relazioni in cui l'amore non è finito? Quindi davvero la storia che l'amore certe volte non basta è vera?

 In "Cry me a river" di Alice Socal (che ebbene sì prende il titolo da "Cry me a river" di Justin Timberlake), una coppia di fidanzati che vive in un imprecisato paese straniero (o almeno io non sono riuscita a capire che posto fosse) si trova a fronteggiare un caso di "Ero contentissimo".

I due vivono assieme una quotidianità abbastanza comune a quella di tante coppie, finché, a un certo punto, senza litigi particolari, intrusioni di terze persone o altro, decidono di lasciarsi, ma di continuare, per ragioni anche di necessità contingente, a vivere sotto lo stesso tetto.

 E' l'inizio di un periodo molto confuso. Una sorta di limbo fatto di lacrime, dolore, reciproco affetto, rassicurazione e, ebbene sì, allucinazioni.

 Cioè che il lettore non riesce bene ad afferrare è il perché i due si siano lasciati, visto che, dalla quantità di lacrime versate, sembra che si amino ancora.
 All'inizio pensi sia uno di quei casi in cui i due si stanno sottoponendo a questa tortura perché, nel fondo del loro cuore, sanno che è in fondo la cosa migliore da fare: si piange tanto adesso, per piangere meno dopo.

 Succedeva ad esempio in "Effetto Casimir" della Nuke, una graphic edita da Rizzoli un paio di anni fa: lui lascia lei perché il rapporto si è logorato e vuole di più, il problema è che non riesce bene a focalizzare questo di più se non come una sorta di insoddisfazione che deriva dalla sua totale mancanza di coraggio/maturità a cui però non riesce a opporsi.

  In quel caso, dopo alcune disavventure, lui tornava da lei di corsa alla ricerca di un porto sicuro e di qualcuno che sostanzialmente gli facesse da madre e avesse coraggio e maturità al suo posto.

In questo caso, entrambi mancano di coraggio, ma non verrebbe mai da dire che sono immaturi.

  Si sono lasciati perché "le cose non funzionavano", ma da quel che vediamo noi funzionava tutto abbastanza bene, abbastanza normalmente, abbastanza quotidianamente.

 Per quale motivo quindi i due si sottopongono a questa tortura del pianto a fiumi? Di notti passate a vedere enormi gamberi saggi o vermi parlanti che escono dalla scatola dei cereali per redarguirli?

 E' la metafora del si muore un po' per poter vivere? E' un arrivederci amore ciao le nubi sono già più in là psichedelico? 

 Ecco, non si sa.
 Il problema di questa graphic è che parla di tanto, raccontandoci troppo poco dei due protagonisti: sono due chiunque e va bene, ma questi due chiunque di cosa hanno paura? Perché hanno lasciato finire una relazione in cui credevano (come dice uno dei due)? Era l'amore che non bastava? Era la quotidianità? Erano le recriminazioni di Tiziano Ferro? 

 Ed è proprio questa eccessiva mancanza di informazioni che rende poco chiara la fine: i due amanti tornano insieme con reciproco sollievo e fine delle lacrime? Sono invece finalmente arrivati allo stadio di semplici amici tanto da dividere lo stesso letto senza desiderio e col sorriso sulle labbra?

Non si tratta di una di quelle ambiguità felici, ma di quelle che lasciano uno strano retrogusto: quello che ti fa domandare (e parecchio, vista la quantità di punti interrogativi usata nella recensione) cosa hai appena letto e quanto, francamente ne ricorderai, tra uno o due mesi.

domenica 23 aprile 2017

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Non sono razzista ma...".

 Lo so, sembra che stia lasciando il blog allo stato brado, ma giuro che sto lavorando dietro le quinte per cose future che spero prima o poi si realizzino (la speranza è sempre l'ultima a morire).

 Peraltro ho appena scoperto, dopo due anni che stanno insieme, che il fidanzato della sorella YA come lavoro rifà siti internet, quindi ho visto la luce e il sopito progetto (sopito per mancanza fondi) di restaurare il blog e renderlo più cooool e decente, sta rivedendo la luce. Chissà un giorno chissà.
 Vabbeh, in questa domenica bando alle ciance ed ecco finalmente una nuova vignetta!
 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Non sono razzista ma..."


mercoledì 19 aprile 2017

I sogni hanno un prezzo. Vale la pena pagarlo? Il confine tra sfruttamento, sogno e insensata ostinazione esiste? E come capiamo di averlo raggiunto? Una recensione di "Piccoli furti" di Michael Cho.

 In questi giorni ho avuto un'interessante conversazione con l'admin di un altro blog (qualcuna ne conosco anche io).

Si discuteva di un male che affligge la nostra generazione: fino a che punto è lecito spingersi per raggiungere i propri sogni?

 Niente paura non eravamo manco arrivate al mercimonio del corpo o simili, il punto era ancora più teorico: se dopo un tot di anni in cui si tenta e ritenta e ritenta di raggiungere a ogni costo un obiettivo non si riesce, è lecito tentare?

 Non partivamo da una questione astratta, ma da una notizia specifica che non citerò esattamente perché non è il fulcro della questione e poi rischiamo di perderci in millanta giri poco pertinenti.

 Alcuni lavoratori/volontari/nonsocomesidefiniscequestaposizionelavorativa lavorano per anni con un misero rimborso spese quasi full time. Visto che dopo nulla si smuove e cominciano a protestare, ma in realtà c'è da tener conto che essendo un posto nella pubblica amministrazione, anche nel caso prima o poi si aprisse una posizione, ci sarebbe sempre un concorso pubblico a cui potrebbe (giustamente) partecipare chiunque. E quindi tutto diventa un attimo vano.

 Sapendo ciò, ha senso continuare a lavorare per poche lire per inseguire un sogno? 
 Ma soprattutto è il giusto modo per farlo? Non ci staremo autosabotando a forza di eccesso di disponibilità? Perché per il sogno ogni sacrificio, materiale e/o morale è lecito?

 La nostra generazione, o buona parte, ha potuto, grazie a genitori che riuscivano a mantenerla,  inseguire lungamente determinati obiettivi che magari tardavano ad arrivare.

 E, badate bene, non sto dicendo che sia sbagliato, soprattutto quando i famosi obiettivi corrispondono a posizione lavorative che sono appannaggio di una sorta di élite che ne detiene un'ottima parte per diritto di ereditarietà (quindi non è per mancanza di talento che non si riescono ad afferrare).

 Si vede bene in "Tutta la vita davanti" di Virzì, quando la laureata in filosofia senza santi in paradiso cerca inutilmente un lavoro proprio nell'editoria.
 Non solo riceve molte porte in faccia, ma deve anche ascoltare l'amica non laureata, interpretata da Caterina Guzzanti, che le fa una di quelle tirate senza senso di chi tanto ha madre e padre che l'hanno sistemata nella casa editrice di amici.

 Certo, poi c'è anche chi ce la fa senza padrini e madrine e sono molti e devono lavorare il triplo (anche lei nel finale ce la fa più o meno), ma c'è anche chi daje e daje non riesce comunque ad arrivare al traguardo.

 Succederebbe anche se tutti fossimo pari ai blocchi di partenza per semplici questioni numeriche, ingoiare il rospo quando sai che non è proprio giusto è la parte peggiore della faccenda, ma non è che semplicemente potrebbe aver senso mollare il colpo? Riconoscere, come cantava Caterina Caselli che "Si muore un po' per poter vivere"?

 Cos'è questo preambolo? Un inno al "piegate la schiena e adattatevi"?

 No, è più che altro un invito a leggere "Piccoli furti" Michael Cho ed. Rizzoli Lizard che spiega molto meglio di me il senso di empasse in cui ci si trova a cicliche ondate nella propria esistenza e a cosa si arriva quando ci si rifiuta di affrontarle.

  (che io, forse traviata da Boris ho letto Corinna tutto il tempo, ma non è importante) è una trentenne americana che ha studiato lettere e voleva scrivere "il grande romanzo americano", un'ambizione tanto comune nei film e nei telefilm, quanto, diciamo la verità, anche nella vita reale (ho avuto la fissa persino io).
Corrina

 Siccome le tasse scolastiche americane non sono come quelle italiane e ha un debito piuttosto consistente da ripianare al riguardo, decide di trovarsi un altro lavoro temporaneo, pagare e poi chiudersi in casa a scrivere.

 E' quello che pensano in molti. Lo confesso, è quello che pensavo anche io: ma sì, intanto lavoro in libreria (che sottolineo era per me già un lavoro papabilissimo, ma a 25 anni, quando ho iniziato, avevo anche altre aspettative, sensate o meno che fossero) e intanto mi guardo intorno.

 La stragrande maggioranza di quelli che riescono ad afferrare un buon contratto poi rimangono lì. 

 Per ottime ragioni intendiamoci: fuori il mondo del lavoro è pessimo, arrivi a 30 anni in un secondo e la parola "sogno" assume altri significati che non rimandano più solo ad avventura e cose meravigliose, ma anche a povertà, ansia, precariato, impossibilità di costruirsi un'esistenza e altre simpatiche amenità. Il terrore del futuro inizia a uccidere l'avventura (o magari, ti dici, sono le prime avvisaglie del buonsenso).

 Se poi il lavoro somiglia in qualche modo a quello che volevi davvero fare è ancora meglio, no? Hai quasi il sogno e un lavoro, chi sta meglio di te?

 Corrina è in questa situazione. Subito dopo la laurea ha trovato lavoro come copy in un'agenzia pubblicitaria in cui le insegnano che loro sono "i sognatori del capitalismo", che inventare nuovi assurdi oggetti di consumo, come il profumo "per bambine" è giusto e necessario e, dulcis in fundo, la sera l'azienda ti fa trovare pure l'open bar.

 Tra il capo che fa discorsi alla Steve Jobs e come Steve Jobs si veste e seraficamente si comporta, privo di un vero ordine morale che non sia il raggiungimento del successo e del denaro fine a sè stesso, preda di una pesante solitudine e del rimpianto per i suoi sogni di scrittura ormai sepolti, Corrina vaga molto silenziosa per una New York che da brava grande città ti fa sentire come un naufrago su un'isola deserta.

 La sua valvola di sfogo, perché anche lei è umana e in realtà deve scaricare in qualche modo la pressione che comporta un mondo che non le appartiene, è appunto commettere piccoli furti in un anonimo negozietto, sempre lo stesso.

Non fa del male a nessuno pensa, il commesso al banco viene pagato lo stesso, l'azienda è sicuramente assicurata e lei subito dopo si sente meglio.

 Per quanto? E perché?

 La storia rischia di prendere una piega da filmaccio americano, ma si salva, pur finendo troppo bene per giudicarla un buon ritratto generazionale.

 Le cose non finiscono così bene, non sempre e soprattutto non subito.

 Perché in realtà il vero problema penso sia attaccarsi disperatamente all'idea che le cose debbano prendere subito una piega giusta, altrimenti abbiamo perso.

 Ha senso continuare a lavorare dieci anni sottopagati (NB sto parlando del farlo per non rinunciare a un sogno, non del farlo perché costretti dagli eventi avversi) o peggio ancora infilarsi in un tunnel di stage gratuiti (sempre stata dell'idea che per non essere pagata a quel punto sto a casa, a meno che dopo 6 mesi non mi assumi con la certezza del 3000 per 1000) perché quello è il lavoro che vogliamo disperatamente fare?

 Ha senso non riuscire a pensare che potrebbe ripresentarsi in futuro, in altre forme, in altri posti? O che non esista proprio nient'altro che possiamo considerare al suo posto?

 Non sto dicendo che lo abbia, sto dicendo solo di non fare come Corrina: pensare che sia normale compiere piccoli furti, ignorare certi segnali che ci stanno avvisando che il sogno non solo è cambiato, ma ci ha cambiato, e magari non in meglio.

 I sogni hanno spesso un prezzo e la domanda è sempre la stessa da sempre: vale la pena pagarlo?

Incontro del 20 alle 21 a Fuori Tempo di Libri! Si trinca con me, Manuela Mellini e Zampextra!

Eccomi, ritorno tra i vivi dopo i bagordi (e il lavoro) pasquale!

 Stasera vi sarà una bella recensione, intanto vi lascio la locandina dell'incontro che farò a Fuori Tempo di libri domani assieme a Manuela Mellini.

 Purtroppo riuscirò a fare l'evento, ma causa orari lavorativi (e viaggio) non ad andare alla fiera che dopo aver fatto la campagna pubblicitaria più silenziosa della storia sembra in realtà essere interessante e piena d'incontri. Vabbeh, sarà per l'anno prossimo!

 Eccovi la locandina dell'incontro del 20 alle 21 in Piazza San Marco (Milano, zona Brera). 
Si trinca.
Ps. Ovviamente la locandina non l'ho fatta io, visto che con paint non si possono ottenere questi effetti.


sabato 15 aprile 2017

"Fatti e usanze meravigliose del popolo dei magazzinieri". Un fumetto su questo mysterioso popolo, così simile ai nani di Tolkien: chiusi nelle viscere della terra, diffidenti verso gli elfi e grandi mangiatori di leccornie.

Finalmente sono riuscita a finire il fumetto sul meraviglioso popolo dei magazzinieri!
 Apparsi brevemente nel fumetto sul magazzino magico, hanno suscitato grande curiosità nell'immaginario popolare e infine sono approdati di diritto a un fumetto a loro dedicato.
 Spero che possa rispondere alle vostre domande su di loro! 
 E Buona Pasqua!
 "Fatti e usanze meravigliose del popolo dei magazzinieri" todo per voi!








mercoledì 12 aprile 2017

Fegatelli! La nuova rubrica sui libri che mi aiutano a tenere il livello di lettura costante mentre cerco very imperdibili tomi: geishe, montagne e molto fair play.

 La settimana scorsa, nonostante abbia passato quasi tutto il mio tempo laziale in quel di Roma, sono riuscita comunque a farmi passare, come ogni volta, la nuova fissazione televisiva dalle mie sorelle.

 L'ultima volta ero risalita con la risata malvagia di RuPaul (nel frattempo ho visto due stagioni e mezza, la dolce metà ha fatto una full immersion ed è arrivata a ben cinque), stavolta con "Boris"7.

 L'avevo visto tutto anni fa, ho persino il film e la seconda stagione, ma, malgrado la magnificenza intrinseca, erano anni che non facevo una ripassata.

 Ora, cosa c'entra tutto questo con noi e con queste recensioni che finalmente rendono di nuovo questo blog un bookblog?

 Con la fascinazione che mi ha lasciato la parola "fegatelli" pronunciata da René durante la puntata sulla pubblicità occulta di una merendina.

 Sostanzialmente sono i riempitivi che raccordano più scene principali e l'ho trovato particolarmente adatto per quelle recensioni piccoline di libri che in realtà leggo tra un libro che mi piace molterrimo e un altro. I fegatelli riempiono quel necessario vuoto che serve ad aiutare il lettore forte a mantenere il suo grado di lettura standard giornaliero anche in assenza di volumi particolarmente interessanti.

 Tutti i fegatelli sono perciò libri gnègnè?

 Non è detto. 
 Magari sono bei libri, ma, semplicemente non sono adatti a me che ho gusti particolari e diciamo forse non sempre condivisibili dalle masse (per dire, non amo particolarmente gli autori americani contemporanei che potrebbe essere un piccolo problema).

In ogni caso non temete, quando il fegatello è proprio andato a male non mi farò scrupolo di dirlo.

 Ah, la differenza (ideale) con le piccole recensioni tra amici sta nel fatto che, almeno teoricamente, le piccole recensioni dovrebbero essere più particolareggiate.

Vediamo se alla fine diventa tutto un piccolo fegatello tra amici o riesco a tenerli separati, non garantisco.

 Finito lo spiegone, let's go!


LA FINE DELL'ESTATE di Harumi Setouchi ed. Neri Pozza:

Molti anni fa, ricordo persino chiaramente il giorno, era il 2 Giugno che da poco era tornato festa nazionale della repubblica, (potrei dire con bastante precisione che fosse il 2001), passai l'intera giornata a leggere un bellissimo libro di Harumi Setouchi: "La virtù femminile".

 A dispetto del titolo, purtroppo fuorviante, erano le sue romanzate memorie di geisha poi divenuta monaca buddista (aver letto questo libro tratto da un'esperienza in prima persona mi ha peraltro sempre dissuaso dal leggere "Memorie di una geisha" che a quel punto ai miei occhi è diventato un surrogato di cui potevo fare a meno).

 Ne ho il ricordo vivido di una lettura coinvolgente, una di quelle che appunto, anche se è l'inizio dell'estate, la scuola sta finendo ed è festa, riesci solo a stare a casa perché vuoi assolutamente finire un libro (altro ricordo vivido è l'aver visto quel giorno, non meno di 30 volte, il video di Imitation of life dei Rem che Mtv mandava inspiegabilmente a ripetizione).

 Anche per questo ricordo, come avete potuto capire molto forte, mi aspettavo molto da "La fine dell'estate" altro romanzo della Setouchi, incidentalmente trovato in biblioteca.

 Invece, che delusione.

 Si tratta sempre di un frangente autobiografico, ma assolutamente privo delle violente emozioni e dei dissidi che laceravano il primo.


Certo, bisogna dire che l'autrice sin dal titolo mi aveva avvertito: se è la fine dell'estate non puoi che attenderti il letargo delle passioni (l'autunno è la mia stagione preferita, ma non sembra esserlo per i creatori di proverbi e metafore che lo dipingono come l'ineluttabile preludio della fine) e infatti è proprio così, con l'aggravante che c'è anche il letargo della scrittura.

 La trama. Tomoko, affermata creatrice di stoffe, convive con un uomo sposato che passa parte del suo tempo con lei e parte con la legittima famiglia, formata da moglie e figlia adolescente.

 Il triangolo regge perché in fondo a Tomoko, donna indipendente economicamente, ma non emotivamente, reduce da un traumatico divorzio dopo il quale le è stato impedito di vedere la figlia, va bene.
 Poi un giorno torna la causa del divorzio di Tomoko: Ryota. Un tempo allievo giovane e spregiudicato del suo ex marito, si palesa come un debosciato a cui però Tomoko, ormai annoiata da otto anni di clandestina, ma ormai noiosa relazione, non sa resistere.

 Avrebbe dovuto essere credo, il ritratto del fatidico momento in cui ci si rende conto che le passioni di gioventù, rivissute venti anni dopo, non sono che una pallidissima imitazione di ciò che fummo in grado di vivere.

 Anzi, forse, ci dimostrano una cosa ancor peggiore: se non abbiamo la forza di evolverci, a quarant'anni rischiamo di essere una pallida e patetica imitazione di ciò che fummo a venti.

 Argomento forte, resa davvero deludente. Consiglio moltissimo "La virtù femminile", questo è molto evitabile.



FAIR PLAY di Tove Jansson ed. Iperborea:

Molti miei colleghi (colleghe principalmente) vanno pazzi per i libri dell'iperborea che un catalogo raffinato e originale.

 In verità io riesco ad appassionarmi meno (e colpevolmente) agli scrittori del nord Europa, ma per qualche misterioso motivo, ho l'impressione che tra qualche anno, quando avrò una vita meno tumultuosa, li troverò molto più adatti ai miei umori.

 In realtà il misterioso motivo potrebbe ravvisarvi benissimo in un libro come Fair Play che racconta, in una manciata di frangenti di vita quotidiana, la storia d'amore, ormai giunta alla fase della terza età, tra due artiste: Mari e Jonna (che mi sono accorta non si chiamasse Joanna solo molto oltre la metà del libro).

 Le due vivono assieme in una casetta su un'isoletta della Finlandia (mi pare di capire non lontana da Helsinki visto che lì hanno i loro studi), un posto selvaggio e pieno di quello sferzante e gelido vento marino che buoni scrittori nordici sanno restituire assai bene sulla carta stampata.

 Qui ricevono visite inaspettate (la vecchia ex scout ossessionata dal ricordo della madre di Mari, una delle fondatrici delle girl scout in Finlandia), ospitano allieve più giovani di cui sono poi neanche troppo velatamente gelose, ricordano momenti della loro lontana infanzia.

 C'è anche un piccolo frangente oltreoceano, in un vecchio albergo del sud degli Stati Uniti, dove esiste un altro piccolo mondo, dove altri piccoli esseri umani hanno scavato il loro posto esatto, la loro vita perfettamente rodata e rassicurante.

 Non succede molto in Fair Play, anzi, tecnicamente non succede proprio niente, ma è straordinaria la voglia di vivere delle due protagoniste che a settant'anni sono ben lungi dall'adagiarsi sul fine vita, ma continuano a sognare, viaggiare e amarsi appassionatamente.

 Ogni età della vita ha le sue velocità, l'importante, sembra dire Tove Jansson (che a sua volta aveva una compagna artista con cui visse fino all'ultimo) è ricordarsi di non rimanere immobili prima della fine. Il mondo può essere terribile, ma rimane, anche un grande e straordinario posto e decidere di rimanere fermi perché il traguardo finale è ormai vicino, non ha molto senso.
E' sempre meglio correre a perdifiato fino in fondo.


IL SILENZIO COPRI' LE TRACCE di Matteo Caccia ed. Baldini e Castoldi:

Per la prima volta in vita mia sono stata invitata a sorbire un brunch in una casa editrice. Immaginavo un evento gianfilipposo, ma quando mi si offre del cibo raramente so rifiutarmi. 
 Devo dire che, malgrado la bontà delle torte salate, non c'è stato molto di gianfilipposo e l'autore, Matteo Caccia, si è sottoposto a quasi due ore di incessante perorazione della sua causa.
 Insomma, ci ero andata non proprio convinta, ma la sua abnegazione mi ha convinto a dargli una possibilità.

 Intendiamoci, non è che pensassi male a priori del libro, semplicemente parla di un argomento che in genere mi interessa poco: la montagna e tutto ciò che le concerne.

 Rudi uomini di montagna che parlano poco e conoscono il senso della vita, l'aspra natura che insegna l'esistenza e quella ruvida reticenza che vorrebbe mettere in risalto l'essenzialità dei rapporti umani, ma rischia di urtare seriamente chi la scambia per maleducazione.

 Alla fine l'ho letto e devo dire che ci sono tanti temi in questo libro, forse troppi.

 La storia è scritta bene, piacerà di certo agli appassionati di montagna e a chi ama la scrittura minimalista fatta da frasi brevi, impressioni decise e taglienti e, appunto, una certa essenzialità.

 Il protagonista, Zambo, un (sembra) giovane uomo molto taciturno, vaga per le montagne dell'appennino ligure-toscano tra incontri, la ricerca di un amore, lupi che ripopolano le valli tra il terrore degli autoctoni (non solo gli esseri umani possono essere percepiti come una minaccia esterna, ma anche gli animali che pur non hanno mai attaccato l'uomo) e molti ricordi.

Il problema, credo, sono proprio quei ricordi che danno l'impressione di leggere due trame diverse non completamente fuse tra loro.

 La prima, quella dell'uomo che cerca di intravedere un confine tra la civiltà e la natura, che lotta con sé stesso  per riuscire a intuirne la portata e la forma potendo così infine decidere da che parte stare.

 La seconda è legata ai numerosi ricordi che il protagonista ha del padre, eroe della resistenza, modello unico (la madre, staffetta partigiana scoperta e uccisa, mai conosciuta) e al contempo inarrivabile.

 Ecco, è come se i due livelli di racconto avessero due protagonisti diversi, uno impegnato a liberarsi dalla civiltà per fondersi con la natura, l'altro ossessionato dai ricordi paterni al punto da anteporli ai propri.

  Il continuo intersecarsi dei due piani toglie ritmo alla lotta principale: quella di un uomo che cerca di fondersi con le proprie spietate montagne.

 Piacerà ai molti che amano Corona e Cognetti, la montagna e gli amici cani.


lunedì 10 aprile 2017

"L'orribile e disgustosa moda della primavera 2017", un fumetto modaiolo. (E a margine: è uscito un mio racconto su "Toilet"!).

Ed ecco che finalmente torno produttiva!

 Il giro del centro Italia in sette giorni è terminato e sono tornata stanchissima, ma felicissima. 
Ho conosciuto tante persone e sono stata alla mia prima fiera del fumetto da fumettista e non da blogger questuante (se non sei Zerocalcare devo dire che è meno faticoso e molto produttivo).

 Comunque, in settimana spero di riuscire a scrivere un post in stile tema delle elementari e soprattutto di dedicarne uno alla biblioteca di San Matteo degli Armeni di Perugia (sì lo so, l'ho già detto, ma quando leggerete il post capirete perché mi sono fissata).

 Ultima notizia di servizio: è uscito un mio racconto sulla raccolta Toilet. 

 Si può tranquillamente trovare e/o ordinare in libreria ed è un giallo ambientato nel triste e convulso mondo degli affitti universitari.

 Ecco, di seguito potete trovare il fumetto, che non è molto a tema libroso, ma domani avrete ben tre recensioni tre (e poi ne ho in mente una sul premio Strega che riuscirò a fare prima che lo proclamino, giuro).

 Ebbene, ecco a voi il primo fumetto modaiolo del blog: "L'orribile e disgustosa moda della primavera 2017"!









giovedì 6 aprile 2017

Il 7 e 8 Aprile, I dolori della giovane libraia a Romics!! Orari e padiglione.

Il blog ahimè in questi giorni tace causa settimana in giro per il centro Italia per le presentazioni del libro. 

Sappiate che la prossima settimana vi narrerò di quel meraviglioso posto che è la Biblioteca San Matteo degli Armeni di Perugia, un posto così bello da non sembrare vero (sia per il posto, sia per i bibliotecari che ci lavorano che per il modo in cui è strutturata).

 Intanto annuncio anche qui che il 7 e 8 sarò a Romics!!!

 E' la prima fiera della mia vita dall'altra parte della barricata e sono molto curiosa di vedere che differenza c'è! Inoltre non vedo l'ora di lanciarmi nel safari dei fumettisti degli altri stand!
 Nella locandina potete trovare orari e padiglione della casa editrice!
 Passate!
(E da domenica ricomincerò a postare anche recensioni, ho appena finito di leggere "Il giorno dei trifidi" e sono due notti che sogno robe apocalittiche).


domenica 2 aprile 2017

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Acqua e sapone".

Ed ecco la seconda vignetta della settimana!

Oggi è stata una giornata molto perlosa (le domeniche lo sono sempre), ma questa era ormai pronta e domani in treno verso l'Umbria mi impegnerò con le altre.

 Dopo la vignetta potrete ammirare la locandina della presentazione alla libreria Arion di Testaccio il 6 Aprile. 

Inoltre udite udite forse sarò a Romics! Il grande sogno di stalkerare i fumettisti nel loro ambiente naturale forse sta per avverarsi!

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Acqua e sapone".

Et la locandina!


sabato 1 aprile 2017

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "E io pago".

 Lo so, dovevo postare questa vignetta tre giorni fa, ma poi gli eventi mi hanno travolta e non ce l'ho fatta. 
 Mi spiace in realtà, soprattutto, non riuscire a fare le recensioni (ma nei prossimi viaggi mi trasporterò il mio fido pc altrimenti non ne esco).

 Nella vignetta di oggi potete ammirare uno di quei meravigliosi esempi di incomunicabilità tra gli esseri umani.

 Fossi in un insegnante d'italiano lo troverei un interessante esercizio sui plurimi significati delle parole.
 Come riuscire a parlare la stessa lingua senza capirsi.
 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "E io pago"!





Ps. Se qualcuno capisce faccia un fischio o un commento
Ps2 Per chi fosse interessato: aggiungerò nuove date!





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